Tutti gli
oftalmologi che abbiano una certa esperienza sanno che la teoria
dell’incurabilità non si adatta alla realtà che si osserva. Non sono
infrequenti casi di guarigione spontanea, oppure di cambiamento da una forma
all’altra.
Per molto
tempo c’è stata la tendenza a ignorare questa realtà molesta, oppure a
giustificarla, e fortunatamente per coloro che ritengono necessario appoggiare
a tutti i costi le vecchie teorie, la funzione di accomodazione della visione
attribuita al cristallino offre, nella maggior parte dei casi, un metodo di
spiegazione plausibile.
Secondo
questa teoria, che molti di noi hanno appreso a scuola, l’occhio cambia la sua
focale per vedere a distanze variate modificando la curvatura del cristallino;
cercando quindi una spiegazione della variabilità dell’errore di rifrazione che
in teoria è costante, gli studiosi ebbero la brillantissima idea di attribuire
al cristallino una capacità di mutare la sua curvatura non solo a scopo di
normale accomodazione, ma anche per compensare o produrre errori da essa
causati.
Nel caso
dell’ipermetropia (generalmente ma impropriamente definita vista lunga, anche
se il paziente che accusa un difetto del genere non riesce a vedere chiaramente
né da lontano né da vicino), l’asse anteroposteriore dell’occhio è troppo
breve, sicché tutti i raggi di luce, sia quelli convergenti provenienti da
oggetti vicini sia quelli provenienti da oggetti lontani, sono a fuoco oltre la
retina anziché su di essa. Nel caso della miopia l’asse anteroposteriore
dell’occhio è eccessivamente allungato, ragion per cui mentre i raggi
divergenti provenienti da oggetti vicini arrivano alla retina, quelli paralleli
provenienti da oggetti lontani non la raggiungono.
Si
ritiene che entrambe queste condizioni siano permanenti, l’una congenita e
l’altra acquisita.
Allora,
se una persona a volte sembra affetta da ipermetropia o da miopia, e a volte
sembra che non lo sia o lo sia in misura inferiore, non è lecito pensare che
nel bulbo oculare sia intervenuto un cambiamento di forma. Perciò, nel caso in
cui l’ipermetropia scompaia o diminuisca, ci viene detto che l’occhio,
nell’atto di vedere sia da lontano sia da vicino, aumenta la curvatura del
cristallino quanto basta per compensare in tutto o in parte la piattezza del
bulbo oculare.
Al
contrario, nel caso della miopia ci viene detto che effettivamente l’occhio si
deforma, creando una condizione anormale o peggiorandone una già presente.
In altre
parole, si dice che il cosiddetto muscolo ciliare, che si suppone controlli la
sagoma del cristallino, possa entrare in uno stato di contrazione più o meno
lungo, tenendo così il cristallino ininterrottamente in uno stato di convessità
che esso, si sostiene, dovrebbe assumere soltanto al punto prossimo della
visione distinta.
Può darsi
che al profano queste curiose prestazioni appaiano innaturali, ma gli
oftalmologi ritengono che la tendenza a indulgervi sia talmente radicata nella
consuetudine dell’organo della vista che nella prova degli occhiali è
consuetudine immettere atropina nell’occhio – le “gocce” che chiunque abbia
consultato un oculista conosce bene – allo scopo di paralizzare il muscolo
ciliare e, di conseguenza, di impedire mutamenti nella curvatura del
cristallino, mettendo in evidenza la “ipermetropia latente” ed eliminando la “miopia
palese”.
Si
ritiene tuttavia che l’interferenza del cristallino sia solo fino a un certo
punto responsabile di moderati gradi di variazione negli errori di rifrazione,
e ciò soltanto durante i primi anni di vita.
Quanto ai
gradi di variazione più grandi, o a quelli che si presentano dopo i
quarantacinque anni, quando si presume che il cristallino abbia perduto più o
meno la sua elasticità, non si è mai trovata una spiegazione plausibile.
La
scomparsa dell’astigmatismo, ovvero il mutare delle sue caratteristiche,
costituisce un problema ancora più sconcertante. Nella maggior parte dei casi
questa condizione è dovuta a un cambiamento asimmetrico nella curvatura della
cornea, da cui deriva la mancata messa a fuoco dei raggi di luce in un punto
qualsiasi: si presume che l’occhio possegga una capacità limitata a superarlo,
anche se l’astigmatismo va e viene molto facilmente come altri errori di
rifrazione. Inoltre è noto che lo si può provocare spontaneamente. Alcuni
individui sono in grado di produrre fino a tre diottrie (a diottria è la forza
di messa a fuoco necessaria per mettere a fuoco raggi paralleli a distanza di
circa un metro). Io stesso sono capace di produrne una e mezza.
Col tempo
scoprii che la miopia e l’ipermetropia, come l’astigmatismo, si potevano
provocare a volontà; che la miopia non si accompagnava, come per tanto tempo si
è creduto, all’uso degli occhi al punto
prossimo (è il punto dell’asse ottico più vicino all’occhio, per il quale è
ancora possibile la visione distinta. La distanza dal punto prossimo aumenta
con l’età. Il punto dell’asse ottico più lontano dall’occhio per il quale è
ancora possibile la visione distinta è detto punto remoto) bensì a uno sforzo per vedere oggetti lontani, in
quanto lo sforzo al punto prossimo è collegato con l’ipermetropia; che un
errore di rifrazione non era mai una condizione costante; che, infine, l’errore
di rifrazione poteva essere eliminato se di grado basso e migliorato se di
grado alto.
Ala fine
mi impegnai in una serie di osservazioni riguardanti gli occhi degli esseri
umani e degli animali inferiori, i cui risultati convinsero me e altri che il
cristallino non è un elemento dell’accomodazione e che la regolazione
necessaria per vedere a diverse distanze viene effettuata nell’occhio, esattamente
come nella macchina fotografica, modificando la lunghezza dell’organo,
variazione che viene compiuta dai muscoli che agiscono sulla parte esterna del
bulbo oculare.
Ugualmente
convincente fu la dimostrazione che gli errori
di rifrazione, presbiopia compresa
(rigidezza del cristallino, che crea difficoltà per l’accomodazione e
recessione del punto prossimo) sono dovuti non a un mutamento organico della
forma del bulbo oculare o della struttura del cristallino, bensì a uno squilibrio funzionale nell’azione dei
muscoli esterni al bulbo oculare, che quindi può essere eliminato.
Fonte: Il metodo Bates di W.H. Bates
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