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sabato 13 maggio 2017

Il codice dell'anima - James Hillman

Noi appiattiamo la nostra vita con il modo stesso in cui la concepiamo. Abbiamo smesso di immaginarla con un pizzico di romanticismo, con un piglio romanzesco. 

Una cosa va chiarita subito. Il paradigma oggi dominante per interpretare le vite umane individuali, e cioè il gioco reciproco tra genetica e ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che dentro di noi chiamiamo “me”. Se accetto l’idea di essere l’effetto di un impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani, tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall’eredità ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei genitori da incidenti sociali.

Questo libro vuole smascherare la mentalità della vittima, da cui nessuno di noi può liberarsi, finché non riusciremo a vedere in trasparenza i paradigmi teorici che a quella mentalità danno origine e ad accantonarli. Noi siamo vittime delle teorie ancor prima che vengano messe in pratica. L’identità di vittima dell’americano contemporaneo è il rovescio della medaglia sul cui diritto campeggia tutta lustra l’identità opposta: l’immagine eroica dell’”uomo” che si è fatto da sé”, che si è ritagliato il destino da solo con volontà incrollabile. La Vittima è l’altra faccia dell’Eroe. Più in profondità, tuttavia, noi siamo vittime della psicologia accademica, della psicologia scientistica, financo della psicologia terapeutica, i cui paradigmi non spiegano e non affrontano in maniera soddisfacente – che è come dire ignorano – il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni vita umana. 

Questo libro intraprende una strada nuova a partire da un’idea antica: ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata. L’idea viene da Platone, dal mito di Er che egli pone alla fine della sua opera più nota, la Repubblica. In breve. L’idea è la seguente.
Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino. 

È più facile credere nella favola di uno sviluppo autonomo, che in quella di una provvidenza che ci guida, che ci ama, che ci trova necessari per ciò che abbiamo da offrire, che accorre in nostro aiuto nella disgrazia, a volte proprio all’ultimo momento.
Ebbene, io voglio affermare la sua esistenza come semplice dato dell’esperienza comune, senza richiamarmi ad alcun guru, senza rendere testimonianza a Cristo, né invocare guarigioni miracolose. Perché non possiamo far rientrare nell’ambito della psicologia ciò che un tempo si chiamava provvidenza, ovvero la presenza invisibile e ci sorveglia e veglia su di noi? 
I bambini costituiscono la miglior dimostrazione pratica di una psicologia della provvidenza. E non mi riferisco tanto a quegli interventi miracolosi, alle storie incredibili di bambini che cadono da cornicioni altissimi senza farsi nemmeno u graffio, che vengono recuperati vivi da sotto le macerie dopo un terremoto. Mi riferisco piuttosto al banalissimo miracolo in cui si rivela il marchio del carattere: tutto a un tratto, come dal nulla, il bambino o la bambina mostrano chi sono, la cosa che devono fare.
Queste urgenze del destino sono spesso frenate da percezioni distorte e da un ambiente poco ricettivo, sicché la vocazione si manifesta nella miriade di sintomi del bambino difficile, del bambino autodistruttivo, portato agli incidenti, del bambino “iper”, tutte espressioni inventate dagli adulti in difesa della propria incapacità a comprendere. Ebbene, la teoria della ghianda offre un modo completamente nuovo di guardare ai disturbi infantili, considerandoli dal punto di vista non tanto delle cause quanto dalle vocazioni. Non tanto dalle influenze passate, quanto delle rivelazioni di un futuro intuito.

La patria del daimon non è sulla terra: il daimon vive in uno stato alterato; la fragilità della carne è una condizione imprescindibile per la vita dell’anima sulla terra; e, del resto, non lasciamo tutti i debiti da pagare quando ce ne andiamo?

Il mito platonico della discesa dice che l’anima discende in quattro modi: attraverso il corpo, i genitori, il luogo, le condizioni esterne. Possiamo prenderli come istruzioni per completare l’immagine che ci siamo portati con noi al nostro arrivo.
Per prima cosa, il corpo: discendere, cioè crescere, significa ubbidire alla legge di gravità, assecondare la curva discendente che accompagna l’invecchiamento.
Secondo, accettare di essere un membro della tua famiglia, di fare parte del tuo albero genealogico, coì com’è, con i suoi rami contorti e i suoi rami marci.
Terzo, abitare in un luogo che sia adatto alla tua anima e che ti leghi a sé con doveri e usanze.
Infine, restituire, con gesti che dichiarano il tuo pieno attaccamento a questo mondo, le cose che l’ambiente ti ha dato. 

Se esiste nella nostra civiltà una fantasia radicata e incrollabile, è quella secondo la quale ciascuno di noi è figlio dei propri genitori e il comportamento di nostra madre e di nostro padre è lo strumento primo del nostro destino. Così come abbiamo i loro cromosomi, allo stesso modo i loro grovigli e i loro atteggiamenti sono gli stessi nostro. La loro psiche inconscia – le collere rimosse, i desideri irrealizzati, le immagini che sognano la notte – conforma congiuntamente la nostra anima e noi non riusciremo mai e poi mai a venire a capo di questo determinismo e liberarcene. L’anima individuale continua a essere immaginata biologicamente come un frutto dell’albero genealogico. La nostra psiche nasce da quella dei nostri genitori, così come la nostra carne nasce dai loro corpi. 

Tutte le cose intorno a noi ci fanno da genitori, se essere genitori significa sorvegliare, istruire, incoraggiare, ammonire. Credete davvero che l’uomo abbia inventato la ruota tutto da solo, tirandola fuori dal suo cervellone, e così il fuoco, le ceste intrecciate, gli utensili? Le pietre rotolavano lungo i pendii; saette di fuoco squarciavano il cielo ed erompevano dalla terra; gli uccelli tessevano, pescavano, macinavano, e così pure le scimmie e gli elefanti. È stata la natura a insegnarci le scienze per dominare la natura.
Più restiamo aggrappati all’importanza esclusiva dei genitori e più li investiamo di un potere cosmico, meno riusciamo a vedere le cure paterne e materne offerte quotidianamente dal mondo nelle piccole cose che ci mette davanti.

Quanto più sono convinto che la mia natura mi venga da mio padre e mia madre, tanto meno sarò aperto alle influenze dominanti che ho intorno; tanto meno sentirò come intimamente importante per la mia storia il mondo che mi circonda. 

Dunque il disastro ecologico che paventiamo è già avvenuto, si consuma ogni giorno. Avviene nelle spiegazioni e nelle descrizioni che diamo di noi che ci separano dal mondo attaccandoci al paternalismo e al materialismo, avviene nella credenza che le cose là fuori continuo meno, nel formare la persona che sono, della mia famiglia ristretta. La superstizione parentale è micidiale per la nostra coscienza di sé, e sta uccidendo il mondo.
Prima, devo attuare quella ricostruzione psicologica, quel salto di fede dalla casa dei genitori alla mia casa nel mondo.
La psicoterapia non fa che aggravare l’errore. La sua teoria del danno evolutivo causato dalla famiglia di fatto allontana il paziente da tutto ciò che potrebbe offrire conforto e insegnamento. A che cosa si rivolge l’anima che non ha un terapeuta con cui fare le sedute? Porta le sue pene a un bosco, alla riva di un fiume, a un animale amico, oppure in giro senza meta per le vie della città, a contemplare il cielo notturno. Oppure guarda fuori dalla finestra o mette a bollire l’acqua per farsi una tazza di tè. È come respirare: espandiamo i polmoni, li rilassiamo, e ci arriva qualcosa, da fuori. Il daimon, nel cuore, sembra contento, perché preferisce la malinconia alla disperazione. C’è contatto.
L’”ambiente favorevole”, tanto necessario alla fantasia del genitore adeguato secondo Winnicott (l’affettuoso, fraterno teorico e clinico della terapia del buon senso), è appunto l’ambiente, quello vero, fisico, non fosse che è così trascurato e quindi temuto, poiché lascia fuori dai suoi costrutti fondamentali il mondo concreto, la teoria psicologica immagina il mondo là fuori come un luogo di oggetti, freddo, indifferente, addirittura ostile (e la terapia come rifugio protettivo, lo studio del terapeuta come un asilo senza estradizione). In questo modo, il mondo riceve la proiezione della cattiva madre, la madre che uccide, inventata dalla “teoria materna”. Siamo riportati al mondo della natura concepito quattro secoli fa da Cartesio, la natura come mera res extensa, uno sconfinato campo di materia vuota di anima, inospitale, meccanico, quando non demoniaco.
Certo che ci sono demòni, là fuori, da propiziare. Le calamità sono in agguato, ma le potenze dietro la porta e nella boscaglia sono anche antenati, non semplicemente batteri, ragni, sabbie mobili. Come abbiamo spodestato i genitori cosmologici, allo stesso modo abbiamo anche perduto gli antenati. Sono stati inghiottiti dai genitori.

“Ascendenza”, nella nostra cultura, sottintende connessione cromosomica; gli antenati sono gli esseri umani dai quali ho ereditato i tessuti del mio corpo. La biogenetica al posto del mondo degli spiriti.

Non avendo il senso degli antenati, chi possiamo propiziare come influenza diretta e determinante sulla nostra vita, se non i nostri genitori? Noi prendiamo alla lettera il quarto comandamento, “Onora il padre e la madre”, il che è segno di civiltà e gentilezza. Ma non dimentichiamo che la preoccupazione di questo comandamento, come dei tre precedenti, è quella di eliminare ogni traccia di politeismo pagano, nel quale il culto degli antenati era fondamentale. Il contesto chiarisce che quel padre e madre non sono i nostri mamma e papà naturali. Hanno poteri immensi e vanno onorati n quanto garanti del destino, “perché la tua vita sia lunga e tu sia felice nel paese che il Signore tuo Dio ti dà” (Dt, 5, 16). Al pari degli spiriti degli antenati, essi sono i custodi e protettori di una vita prolungata, latori di una buona sorte e spiriti della natura che abitano la terra. Nasce qui, per comandamento, e varrà per i secoli dei secoli, la superstizione parentale.
Il mondo primordiale degli spiriti è stato rimpicciolito negli idoli concreti e umani, troppo umani, di due figure individuali.
Il processo di riduzione operato dalla religione ufficiale su quello stupendo serraglio di antenati ha impiegato secoli a essere completato. Noi lo chiamiamo processo di civilizzazione. Gaia e Urano, Geb e Nut, Bor e Bestla si sono ristretti fino alla piccola taglia di mamma e papà, e non stanno più in cielo, bensì nell’appartamento al piano di sopra. Il nostro orizzonte stato ritagliato per ridurlo allo loro scala, e la loro scala è stata ingrandita da ciò che essi rimpiazzano. E i nostri riti in loro onore hanno perduto ogni linfa, riducendosi a una giornata apposita all’anno per ciascuno, alla cura della loro salute e benessere materiale, a qualche telefonata; e tutto questo mentre continuiamo ad attribuire enorme potere determinante alla magica influenza che essi hanno sulla nostra vita intima. 

Fonte: Il codice dell'anima di James Hillman

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