Noi
appiattiamo la nostra vita con il modo stesso in cui la concepiamo. Abbiamo
smesso di immaginarla con un pizzico di romanticismo, con un piglio romanzesco.
Una cosa va chiarita subito. Il paradigma oggi
dominante per interpretare le vite umane individuali, e cioè il gioco reciproco
tra genetica e ambiente, omette una cosa essenziale: quella particolarità che
dentro di noi chiamiamo “me”. Se accetto l’idea di essere l’effetto di un
impercettibile palleggio tra forze ereditarie e forze sociali, io mi riduco a
mero risultato. Quanto più la mia vita viene spiegata sulla base di qualcosa
che è già nei miei cromosomi, di qualcosa che i miei genitori hanno fatto o
hanno omesso di fare e alla luce dei miei primi anni di vita ormai lontani,
tanto più la mia biografia sarà la storia di una vittima. La vita che io vivo
sarà una sceneggiatura scritta dal mio codice genetico, dall’eredità
ancestrale, da accadimenti traumatici, da comportamenti inconsapevoli dei miei
genitori da incidenti sociali.
Questo libro vuole smascherare la mentalità della
vittima, da cui nessuno di noi può liberarsi, finché non riusciremo a vedere in
trasparenza i paradigmi teorici che a quella mentalità danno origine e ad
accantonarli. Noi siamo vittime delle teorie ancor prima che vengano messe in
pratica. L’identità di vittima dell’americano contemporaneo è il rovescio della
medaglia sul cui diritto campeggia tutta lustra l’identità opposta: l’immagine
eroica dell’”uomo” che si è fatto da sé”, che si è ritagliato il destino da
solo con volontà incrollabile. La Vittima è l’altra faccia dell’Eroe. Più in
profondità, tuttavia, noi siamo vittime della psicologia accademica, della
psicologia scientistica, financo della psicologia terapeutica, i cui paradigmi
non spiegano e non affrontano in maniera soddisfacente – che è come dire ignorano
– il senso della vocazione, quel mistero fondamentale che sta al centro di ogni
vita umana.
Questo libro intraprende una strada nuova a partire
da un’idea antica: ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata. L’idea
viene da Platone, dal mito di Er che egli pone alla fine della sua opera più
nota, la Repubblica. In breve. L’idea
è la seguente.
Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi
sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno
che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro.
Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci
venuti vuoti. È il daimon che ricorda
il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui
dunque il portatore del nostro destino.
È più facile credere nella favola di uno sviluppo
autonomo, che in quella di una provvidenza che ci guida, che ci ama, che ci
trova necessari per ciò che abbiamo da offrire, che accorre in nostro aiuto
nella disgrazia, a volte proprio all’ultimo momento.
Ebbene, io voglio affermare la sua esistenza come
semplice dato dell’esperienza comune, senza richiamarmi ad alcun guru, senza
rendere testimonianza a Cristo, né invocare guarigioni miracolose. Perché non
possiamo far rientrare nell’ambito della psicologia ciò che un tempo si
chiamava provvidenza, ovvero la presenza invisibile e ci sorveglia e veglia su
di noi?
I bambini costituiscono la miglior dimostrazione
pratica di una psicologia della provvidenza. E non mi riferisco tanto a quegli
interventi miracolosi, alle storie incredibili di bambini che cadono da
cornicioni altissimi senza farsi nemmeno u graffio, che vengono recuperati vivi
da sotto le macerie dopo un terremoto. Mi riferisco piuttosto al banalissimo
miracolo in cui si rivela il marchio del carattere: tutto a un tratto, come dal
nulla, il bambino o la bambina mostrano chi sono, la cosa che devono fare.
Queste urgenze del destino sono spesso frenate da
percezioni distorte e da un ambiente poco ricettivo, sicché la vocazione si
manifesta nella miriade di sintomi del bambino difficile, del bambino
autodistruttivo, portato agli incidenti, del bambino “iper”, tutte espressioni
inventate dagli adulti in difesa della propria incapacità a comprendere.
Ebbene, la teoria della ghianda offre un modo completamente nuovo di guardare
ai disturbi infantili, considerandoli dal punto di vista non tanto delle cause
quanto dalle vocazioni. Non tanto dalle influenze passate, quanto delle
rivelazioni di un futuro intuito.
La patria del daimon
non è sulla terra: il daimon vive in
uno stato alterato; la fragilità della carne è una condizione imprescindibile
per la vita dell’anima sulla terra; e, del resto, non lasciamo tutti i debiti
da pagare quando ce ne andiamo?
Il mito platonico della discesa dice che l’anima
discende in quattro modi: attraverso il corpo, i genitori, il luogo, le
condizioni esterne. Possiamo prenderli come istruzioni per completare
l’immagine che ci siamo portati con noi al nostro arrivo.
Per prima cosa, il corpo: discendere, cioè
crescere, significa ubbidire alla legge di gravità, assecondare la curva
discendente che accompagna l’invecchiamento.
Secondo, accettare di essere un membro della tua
famiglia, di fare parte del tuo albero genealogico, coì com’è, con i suoi rami
contorti e i suoi rami marci.
Terzo, abitare in un luogo che sia adatto alla tua
anima e che ti leghi a sé con doveri e usanze.
Infine, restituire, con gesti che dichiarano il tuo
pieno attaccamento a questo mondo, le cose che l’ambiente ti ha dato.
Se esiste nella nostra civiltà una fantasia
radicata e incrollabile, è quella secondo la quale ciascuno di noi è figlio dei
propri genitori e il comportamento di nostra madre e di nostro padre è lo
strumento primo del nostro destino. Così come abbiamo i loro cromosomi, allo
stesso modo i loro grovigli e i loro atteggiamenti sono gli stessi nostro. La
loro psiche inconscia – le collere rimosse, i desideri irrealizzati, le
immagini che sognano la notte – conforma congiuntamente la nostra anima e noi
non riusciremo mai e poi mai a venire a capo di questo determinismo e
liberarcene. L’anima individuale continua a essere immaginata biologicamente
come un frutto dell’albero genealogico. La nostra psiche nasce da quella dei
nostri genitori, così come la nostra carne nasce dai loro corpi.
Tutte le cose intorno a noi ci fanno da genitori,
se essere genitori significa sorvegliare, istruire, incoraggiare, ammonire.
Credete davvero che l’uomo abbia inventato la ruota tutto da solo, tirandola
fuori dal suo cervellone, e così il fuoco, le ceste intrecciate, gli utensili?
Le pietre rotolavano lungo i pendii; saette di fuoco squarciavano il cielo ed
erompevano dalla terra; gli uccelli tessevano, pescavano, macinavano, e così
pure le scimmie e gli elefanti. È stata la natura a insegnarci le scienze per
dominare la natura.
Più restiamo aggrappati all’importanza esclusiva
dei genitori e più li investiamo di un potere cosmico, meno riusciamo a vedere
le cure paterne e materne offerte quotidianamente dal mondo nelle piccole cose
che ci mette davanti.
Quanto più sono convinto che la mia natura mi venga da
mio padre e mia madre, tanto meno sarò aperto alle influenze dominanti che ho
intorno; tanto meno sentirò come intimamente importante per la mia storia il
mondo che mi circonda.
Dunque il disastro ecologico che paventiamo è già
avvenuto, si consuma ogni giorno. Avviene nelle spiegazioni e nelle descrizioni
che diamo di noi che ci separano dal mondo attaccandoci al paternalismo e al
materialismo, avviene nella credenza che le cose là fuori continuo meno, nel
formare la persona che sono, della mia famiglia ristretta. La superstizione
parentale è micidiale per la nostra coscienza di sé, e sta uccidendo il mondo.
Prima, devo attuare quella ricostruzione
psicologica, quel salto di fede dalla casa dei genitori alla mia casa nel
mondo.
La psicoterapia non fa che aggravare l’errore. La
sua teoria del danno evolutivo causato dalla famiglia di fatto allontana il
paziente da tutto ciò che potrebbe offrire conforto e insegnamento. A che cosa
si rivolge l’anima che non ha un terapeuta con cui fare le sedute? Porta le sue
pene a un bosco, alla riva di un fiume, a un animale amico, oppure in giro
senza meta per le vie della città, a contemplare il cielo notturno. Oppure guarda
fuori dalla finestra o mette a bollire l’acqua per farsi una tazza di tè. È come
respirare: espandiamo i polmoni, li rilassiamo, e ci arriva qualcosa, da fuori.
Il daimon, nel cuore, sembra
contento, perché preferisce la malinconia alla disperazione. C’è contatto.
L’”ambiente favorevole”, tanto necessario alla
fantasia del genitore adeguato secondo Winnicott (l’affettuoso, fraterno
teorico e clinico della terapia del buon senso), è appunto l’ambiente, quello
vero, fisico, non fosse che è così trascurato e quindi temuto, poiché lascia
fuori dai suoi costrutti fondamentali il mondo concreto, la teoria psicologica
immagina il mondo là fuori come un luogo di oggetti, freddo, indifferente,
addirittura ostile (e la terapia come rifugio protettivo, lo studio del
terapeuta come un asilo senza estradizione). In questo modo, il mondo riceve la
proiezione della cattiva madre, la madre che uccide, inventata dalla “teoria
materna”. Siamo riportati al mondo della natura concepito quattro secoli fa da
Cartesio, la natura come mera res extensa,
uno sconfinato campo di materia vuota di anima, inospitale, meccanico, quando
non demoniaco.
Certo che ci sono demòni, là fuori, da propiziare.
Le calamità sono in agguato, ma le potenze dietro la porta e nella boscaglia
sono anche antenati, non semplicemente batteri, ragni, sabbie mobili. Come
abbiamo spodestato i genitori cosmologici, allo stesso modo abbiamo anche
perduto gli antenati. Sono stati inghiottiti dai genitori.
“Ascendenza”, nella nostra cultura, sottintende
connessione cromosomica; gli antenati sono gli esseri umani dai quali ho
ereditato i tessuti del mio corpo. La biogenetica al posto del mondo degli
spiriti.
Non avendo il senso degli antenati, chi possiamo
propiziare come influenza diretta e determinante sulla nostra vita, se non i
nostri genitori? Noi prendiamo alla lettera il quarto comandamento, “Onora il
padre e la madre”, il che è segno di civiltà e gentilezza. Ma non dimentichiamo
che la preoccupazione di questo comandamento, come dei tre precedenti, è quella
di eliminare ogni traccia di politeismo pagano, nel quale il culto degli
antenati era fondamentale. Il contesto chiarisce che quel padre e madre non
sono i nostri mamma e papà naturali. Hanno poteri immensi e vanno onorati n
quanto garanti del destino, “perché la tua vita sia lunga e tu sia felice nel
paese che il Signore tuo Dio ti dà” (Dt, 5, 16). Al pari degli spiriti degli
antenati, essi sono i custodi e protettori di una vita prolungata, latori di
una buona sorte e spiriti della natura che abitano la terra. Nasce qui, per
comandamento, e varrà per i secoli dei secoli, la superstizione parentale.
Il mondo primordiale degli spiriti è stato
rimpicciolito negli idoli concreti e umani, troppo umani, di due figure
individuali.
Il processo di riduzione operato dalla religione
ufficiale su quello stupendo serraglio di antenati ha impiegato secoli a essere
completato. Noi lo chiamiamo processo di civilizzazione. Gaia e Urano, Geb e
Nut, Bor e Bestla si sono ristretti fino alla piccola taglia di mamma e papà, e
non stanno più in cielo, bensì nell’appartamento al piano di sopra. Il nostro
orizzonte stato ritagliato per ridurlo allo loro scala, e la loro scala è stata
ingrandita da ciò che essi rimpiazzano. E i nostri riti in loro onore hanno
perduto ogni linfa, riducendosi a una giornata apposita all’anno per ciascuno,
alla cura della loro salute e benessere materiale, a qualche telefonata; e
tutto questo mentre continuiamo ad attribuire enorme potere determinante alla
magica influenza che essi hanno sulla nostra vita intima.
Fonte: Il codice dell'anima di James Hillman
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