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mercoledì 22 marzo 2017

La mia fanciullezza con Gurdjieff – Fritz Peters

Incontrai e parlai per la prima volta con Georges Gurdjieff nel 1924, un sabato pomeriggio di giugno, nel castello del Prieuré a Fontainebleau-Avon, in Francia.
Sebbene le ragioni della mia presenza lì non mi fossero molto chiare - avevo allora undici anni - il ricordo di quell'incontro è ancora straordinariamente vivido in me.
Era una luminosa giornata di sole. Gurdjieff stava seduto a un piccolo tavolo col piano di marmo, sotto un ombrellone a righe, volgendo la schiena al castello e avendo di fronte un'ampia distesa di prato all'inglese con aiuole e fiori. Dovetti rimanere sulla terrazza del castello, dietro di lui, per un certo tempo, prima che m'invitasse a sedergli accanto per un colloquio. L'avevo già visto una volta a New York, l'inverno precedente, ma non mi sembrava d'averlo «incontrato». Ricordavo solo che mi aveva impaurito, in parte per il modo in cui aveva guardato me - o meglio attraverso di me - e in parte per la reputazione di cui godeva. Mi era stato detto che era per lo meno un «profeta» o persino qualcosa che aveva a che fare molto da vicino con la «seconda venuta di Cristo». Incontrare una qualunque versione di Cristo è un avvenimento, e non era certo un incontro che io attendessi con ansia. La sua presenza non solo non mi attraeva, ma anzi mi terrorizzava. L'incontro reale non fu commisurato ai miei timori. «Messia» o no, mi parve un uomo semplice, schietto.
Non era circondato da nessun alone, e per quanto il suo inglese rivelasse un forte accento straniero, mi parlò in modo ben più semplice di quanto la Bibbia m'avesse indotto ad aspettarmi. Fece un gesto vago nella mia direzione, mi disse di sedermi, ordinò un caffè, e quindi mi chiese per qual motivo mi trovassi lì. Mi tranquillizzò molto scoprire che sembrava un comune mortale, ma la domanda mi turbò. Ero sicuro che si aspettasse una risposta importante, che dovessi avere un eccellente motivo per esser lì. Non avendone alcuno, gli dissi la verità, ossia che ero perché mi ci avevano portato. Mi chiese allora perché volessi studiare nella sua
scuola. Ancora una volta fui solo in grado di rispondere che non dipendeva da me, che non ero stato neppure consultato, che di fatto ero stato portato in quel luogo.
Ricordo il forte impulso a mentirgli e la sensazione altrettanto forte di non poterlo fare, perché ero certo che già conoscesse la verità. L'unica domanda a cui risposi non del tutto sinceramente fu quando mi chiese se desideravo restare e studiare con lui. Dissi che lo volevo, il che non era sostanzialmente vero. Lo dissi solo perché sapevo che ci si aspettava da me quella risposta. Mi sembra, oggi, che ogni bambino avrebbe risposto nello stesso modo. Qualunque cosa rappresentasse per gli adulti il Prieuré (il nome completo della scuola era «Istituto Gurdjieff per lo Sviluppo Armonico dell'Uomo»), io mi sentivo come chi viene interrogato dal direttore di una qualsiasi scuola secondaria. Tutti i bambini andavano a scuola, e io accettavo la convenzione secondo cui nessun bambino avrebbe detto al suo futuro insegnante che non desiderava andare a scuola. L'unica cosa che mi stupì fu che la domanda mi fosse rivolta.

Gurdjieff poi mi pose altre due domande:
1. Che cosa pensi sia la vita?
2. Che cosa desideri conoscere?

Risposi alla prima domanda dicendo: «Penso che la vita sia qualcosa che ti viene offerto su un vassoio d' argento e che spetti a te (a me) farne qualcosa».
La risposta suscitò un lungo dibattito riguardo all'espressione «su un vassoio d'argento», non senza un accenno di Gurdjieff alla testa di Giovanni Battista. Ritirai l'espressione, o così allora mi parve, modificandola nel senso che la vita è un «dono», e questo parve soddisfarlo.
La risposta alla seconda domanda (Che cosa desideri conoscere?) era più facile. Dissi: «Voglio conoscere tutto».
Gurdjieff ribatté immediatamente: «Non puoi conoscere tutto. E poi tutto di cosa?».
Risposi: «Tutto dell'uomo». E aggiunsi: «In inglese credo si chiami psicologia o forse filosofia».
Egli sospirò e dopo un breve silenzio disse: «Puoi rimanere. Ma la tua risposta mi rende la vita più difficile. Io sono l'unico a insegnare quello che chiedi. Cosi tu mi farai lavorare di più».



Fonte: La mia fanciullezza con Gurdjieff – Fritz Peters