Accenneremo brevemente alla discrepanza tra maturità biologica e
maturità psicologica che si riscontra nella specie umana, e all’influsso della
cosiddetta “rivoluzione sessuale” sui comportamenti della popolazione negli
ultimi decenni.
È doveroso fare una premessa generale a queste considerazioni: è bene
ricordare che la medicina e le discipline affini, (come la psicologia) non è
una “veterinaria applicata all’uomo”: l’approccio riduzionistico, che può
essere valido nello studio degli altri animali, non è sufficiente a garantire
una adeguata compressione del comportamento degli esseri umani. Benché alcuni
antropologi si premurino di ricordarci che anche l’uomo appartiene al regno
animale, e che sopravvalutare la cosiddetta “razionalità” della specie umana è
sempre una forma di irrazionalità (affermazione che ci sentiamo di
sottoscrivere in pieno), è bene anche essere consapevoli del fatto che esistono
limiti alla comprensione della mente umana che non possono essere superati con
uno studio riduzionista, puramente “veterinario” (ossia etologico, biologico,
biochimico) dell’uomo.
Questo vale, ovviamente, anche per il comportamento sessuale, che
riveste un interesse del tutto particolare all’interno di quella realtà
ipercomplessa che è l’essere umano in generale, e in particolare all’interno
della singola persona, considerata nella sua unicità e individualità.
Anzitutto l’uomo, a differenza degli altri animali, raggiunge la
maturità sessuale quando non è ancora in grado di badare a sé stesso (stiamo
parlando dell’uomo occidentale contemporaneo): un ragazzino di dodici anni e
una bambina di dieci potrebbero, biologicamente parlando, mettere al mondo dei
figli. Eppure, il Lettore non può non augurarsi che tale evenienza non accada
mai, date le condizioni psicologiche medie della popolazione di quell’età.
Questa discrepanza tra maturità biologica e maturità comportamentale è
molto importante e ha tutta una serie di conseguenze, che riguardano
l’educazione, i dividiti, i rapporti con i genitori e l’autorità in generale,
la gestione dell’aggressività e via dicendo. La società occidentale, infatti,
si incarica di contenere e differire per un congruo periodo di tempo
l’esercizio della sessualità nei giovani, dal momento che molti di essi non
sono in grado di allevare la prole, né di discriminare tra uso consapevole
della sessualità e abuso subito da parte di individui di età maggiore.
Il processo attraverso il quale i giovani della specie umana
raggiungono un livello di maturità adeguato alla società nella quale vivono è
lungo, faticoso, costellato di difficoltà, e l’aggressività e la sessualità
sono le due spinte biologiche più ardue da contenere e incanalare (altre, come
l’alimentazione o l’esplorazione, sono meno difficili da gestire, ma non
mancano di produrre problemi). Tuttavia (e questa è la seconda anomalia della
maturazione della persona umana), l’acquisizione delle capacità di controllo
dell’aggressività è un processo che inizia fin dai primi anni dell’esistenza,
mentre il controllo delle pulsioni sessuali viene appreso solo dopo la pubertà.
… l’individuo apprende la gestione degli impulsi aggressivi quando il
suo cervello ha la massima plasticità. Al contrario, la gestione della pulsione
sessuale viene appresa a partire da un’età nella quale la plasticità è già
ridotta, la personalità (ossia le modalità ridondanti di risposta agli stimoli,
lo “stile” esibito dal singolo individuo) è già stata in larga parte
programmata, e lo spazio per operare un condizionamento da parte degli adulti
s’è già grandemente ridotto.
Per l’apprendimento delle regole che governano la gestione delle
pulsioni istintive si verifica un fenomeno analogo a quello che accade
nell’apprendimento di una lingua madre: se viene iniziato in età infantile la
lingua straniera sarà appresa perfettamente, anche dal punto di vista fonetico,
in caso contrario (dopo la pubertà) l’apprendimento non sarà mai perfetto e la
pronuncia tradirà sempre un accento non naturale.
Gli esseri umani imparano a direzionare volontariamente i propri
comportamenti fin dall’età di un anno circa, tramite lo sviluppo delle aree
corticali prefrontali (le regioni della corteccia cerebrale deputate al
differimento delle pulsioni) e della muscolatura scheletrica (che è preposta
alla motricità). La società, ovviamente, incoraggia l’acquisizione del
controllo dell’espressione degli istinti.
L’approccio strategico alla psicoterapia
Si pensa in genere che la psicoterapia debba essere necessariamente un
percorso lungo, laborioso, complesso e molto costoso.
Si crede anche che essa comporti una notevole dose di stress pe il
paziente, il quale sarebbe costretto a mettersi a nudo davanti a un estraneo,
determinato a indagare tutti i suoi più riposti segreti, le sue infantili paure
e i suoi inconfessabili desideri.
In effetti, qualcosa di simile accade a volte in alcune tra le almeno, cinquecento differenti forme di psicoterapia
oggi esistenti.
La Terapia Strategica non prevede che il paziente si avventuri in un
percorso iniziatico per migliorare la conoscenza di sé, né che sperimenti una
confessione catartica, né tantomeno che egli sia addestrato a uno specifico
allenamento allo scopo di abituarsi a convivere con i propri problemi. La
Terapia Strategica, piuttosto, è concepita e strutturata come una sorta di
partita a scacchi: si sviluppa attraverso mosse e contromosse, messe in atto
alternativamente dal terapeuta e dal paziente. Alla fine di questa “partita”,
che è parte di un gioco molto serio, entrambi vincono o perdono assieme: la
vittoria è l’eliminazione del problema presentato dal paziente, la sconfitta è
la sua mancata eliminazione entro un breve intervallo di tempo (in genere, nel
modello Breve Evoluto della Terapia Strategica, entro una decina di sedute).
Le mosse del terapeuta consistono, per la gran parte, nella prescrizione
di compiti che il paziente deve svolgere al di fuori della seduta; essi sono
finalizzati al raggiungimento di obiettivi concreti, stabiliti fin dalla prima
seduta, di comune accordo, dal paziente e dal terapeuta. Gli obiettivi concreti
a loro volta sono pianificati allo scopo di eliminare il problema presentato
dal paziente.
Secondo la prospettiva costruttivista,
gli esseri umani, piuttosto che ottenere una conoscenza osservando il mondo, la
costruiscono sulla base delle loro percezioni, dei loro pensieri e dei loro
comportamenti. Ciò che per l’osservatore esiste realmente è soltanto una sua
costruzione. Ne discende che interessa più sapere come viene conosciuta la realtà piuttosto che sapere che cosa essa sia.
Inoltre la realtà viene costruita dalla comunicazione tra gli esseri
umani, che poi si convincono che l’”illusione” che essi hanno della realtà è la vera realtà. In base a questa
illusione, essi poi agiscono nel mondo selezionando le percezioni e le azioni
in modo tale da confermare, con i fatti concreti, le proprie illusioni. Si
arriva così al concetto di “profezia che si autodetermina”, definita da
Watzlawick (1981) come “una supposizione o previsione che, come risultato
dell’averla supposta, causa l’avverarsi dell’evento stesso”.
… il terapeuta strategico non ha la presunzione di insegnare, di
imporre qualcosa di nuovo dal di fuori, ma soltanto quella di far sì che il
paziente giunga a scoprire ciò che già ha. Non si tratta di aggiungere qualche
dato nuovo al sistema, ma di modificare il modo con cui il sistema procede,
utilizzando gli stessi elementi che esso ha al proprio interno. Il terapeuta
strategico insegna soltanto ad attivare le armi già presenti, ma disfunzionali,
trasformandole in armi funzionali.
Non ha nessuna importanza come abbia avuto origine la “malattia”, se
nella storia chimica o relazionale della persona. Una volta che è successo, è
successo: si tratta a questo punto di cambiare
il modo di utilizzare ciò che esiste.
L’approccio strategico si basa sull’assunto che il problema va
affrontato nel qui e ora: anzitutto, non si ricercano le cause psichiche remote
(che comunque, se ci sono, risalgono al passato, e quindi non possono essere
modificate), mentre l’attenzione viene focalizzata sui meccanismi con i quali
il problema persiste, ossia viene mantenuto nel tempo.
In secondo luogo, e coerentemente con questa impostazione, non si
aspetta di avere un quadro completo della situazione psichica del soggetto
(lavoro che peraltro non potrebbe mai essere completato) per partire in un
secondo tempo con la terapia: piuttosto, la fase di cura inizia fin dalla prima
seduta, e si realizza concretamente con lo scopo di provocare qualche
cambiamento immediato in un settore dell’esistenza della persona. La nozione
che sottende questa impostazione è che nei sistemi complessi (quali la mente
umana) tutti gli elementi sono interconnessi e interdipendenti, per cui basta
attivare un cambiamento significativo in un aspetto della situazione per
provocare eventi a cascata sugli altri.
Secondo il modello strategico, ciò che determina la persistenza del
problema non è qualche oscura causa inconfessabile, né un qualche difetto di
base esistente nell’inconscio: al contrario, il problema persiste proprio a
causa della mente conscia, quella che razionalmente e col buon senso si adopera
per dispiegare le tentate soluzioni che per essendosi dimostrate disfunzionali,
vengono perpetuate rigidamente.
La resistenza che si nota nel paziente (ossia la sua difficoltà a
raggiungere il cambiamento terapeutico) non deriva, perciò, da cause inconsce,
ma dal fatto che le soluzioni da lui tentate gli appaiono le più razionali, le
migliori, le più sensate: tale resistenza viene aggirata proponendo
prescrizioni di comportamenti ritagliati sartorialmente sul paziente e
concepiti di volta in volta per inibire le tentate soluzioni disfunzionali.
Per persuadere il paziente a eseguire le prescrizioni (che si basano
su di una logica non ordinaria, e si presentano perciò come strane, inconsuete)
viene utilizzato un linguaggio suggestivo del tipo “ipnosi senza trance”.
Come effetto delle prescrizioni, il paziente mette in atto
comportamenti che gli consentono di verificare sperimentalmente e in prima
persona che i blocchi che presentava sono stati superati; viene in seguito
insegnato al paziente come servirsi del paradosso per risolvere spontaneamente
problemi analoghi a quelli che lo hanno portato in terapia.
L’obiettivo della terapia è pratico, concreto, definito chiaramente
fin dall’inizio. Si stabilisce anche la durata della terapia, ossia entro
quanto sedute devono verificarsi i cambiamenti stabiliti di comune accordo: se
questo non si verifica, la terapia viene interrotta, poiché si ritiene che se
un rimedio è efficace, deve funzionare subito.
Fonte: Quando il sesso diventa un problema - Giorgio Nardone e Matteo Rampin